Pensiero per immagini e materia sensibile al tempo dell’easyTouch.
Internet raccoglie e trasmette video a webcam; foto, file audio, documentari e film pubblicati su siti come Flickr, YouTube o MySpace; testate giornalistiche e programmi radio e TV; articoli e corrispondenze ‘personali ma pubblici’ inseriti nei blog (ormai invalsi come forma di comunicazione diretta); messaggi scambiati tra le community delle reti sociali, come Twitter o Facebook. Questo non-luogo di confronto e scambio orizzontali è il ciberspazio preconizzato nel 1984 dallo scrittore di fantascienza William Gibson in Neuromancer: uno ‘spazio informativo’ composto esso stesso di informazioni binarie. In questo campo mentale ma dotato di una propria geografia (la struttura delle Rete con i suoi canali di trasmissione-dati) i vecchi concetti di proprietà, espressione, identità, movimento, contesto, privacy e copyright – basati come sono sulla fisicità – hanno conosciuto una profonda ridefinizione sulla spinta di un’anonima moltitudine, che continuamente pubblica, posta, tagga contenuti e condivide immagini di ogni tipo e provenienza. Se negli anni 90 la maggior parte delle persone utilizzava il mondo virtuale per affermare una propria identità più vera o nascosta, che nella vita off-line rischiava di rimanere inespressa (S. Turale, Life on the Screen: Identity in the Age of the Internet, 1995), oggi, dopo la nascita del Web 2.0, che permette un notevole livello di interazione sito-utente anche a chi non ha conoscenze informatiche; lo sviluppo di software di instant video messaging e il successo di Facebook, sempre più numerosi sono coloro che vanno on-line con il proprio nome e la propria faccia, la propria storia personale di amicizie, lavoro, interessi e passatempi.
Per dirsi cosa’ Per instaurare che tipo di rapporti’ Sia chiaro, le enormi potenzialità della tecnologia non regaleranno all’uomo un pensiero nuovo capace di trasformarlo nel profondo, né di cambiare i rapporti di potere che governano il mondo attuale. Ma è altrettanto vero che Internet è un’irrinunciabile opportunità di condivisione e diffusione di informazioni e conoscenze, spesso alternative, dissidenti o eversive rispetto al pensiero dominante o alla cultura ufficiale. Da qui i rinnovati tentativi dei governi di sorvegliare, regolare, censurare, catalogati da Antonio Muntadas nella sua Stanza degli archivi (1994, www.thefileroom.org). In questa nuova frontiera sociale e culturale si muove il collettivo Alterazioni Video, nato a Milano nel 2004. La distanza fisica tra i 5 membri del gruppo (attivi tra Milano, New York e Berlino) ha fatto della comunicazione uno degli aspetti nodali del loro lavoro. Mediata dal telefono o Internet, negli anni questa è passata da violente litigate a messaggi chat sempre più concisi, fino a giungere allo stadio preverbale attuale, fatto unicamente di immagini rubate in Rete, che i 5 si scambiano, manipolano, scompongono e ricreano a ogni botta e risposta, ricorrendo a Photoshop. Il risultato è un vocabolario in fieri di sintagmi visivi e suggestioni figurali, colori sgargianti e indizi di realtà.
Un vero e proprio pensiero per immagini, simile al sogno, che nel 2010 prende forma di opera d’arte nel ciclo Violent Paintings, stampando i fitti scambi di corrispondenza su un pvc leggero, sottoposto a increspature come un bozzetto stracciato, a creare una sorta di poster: simile a quello dietro cui Tim Robbins nasconde la propria via di fuga dal carcere di Shawshank nel film di Frank Darabont Le ali della libertà (1994). Frutto dello sconfinamento dell’atto creativo nel Web, queste immagini, incuranti di nascondere la propria natura di ready made e sintetiche come un algoritmo, sono piani ricettivi polifonici della tumultuosa attualità virtuale e, nella loro sottile complessità, ricordano da lontano la lezione di Robert Rauschenberg. In esse, infatti, fotografia amatoriale, giornalismo d’inchiesta, manga, storia dell’arte, strizzate pubblicitarie e codici commerciali si mescolano e si decontenstualizzano, acquisendo significati diversi da quelli originari. Il collettivo sfrutta la comunicazione ipertestuale del Web e la capacità esponenziale dei suoi segni di acquisire, ogni volta, nuovo valore a seconda di ciò che è a loro collegato.
Questo sarà tanto più vero con il sopraggiungere del Web semantico, che farà di Internet un immenso archivio di metadati con reti di relazioni e connessioni tra documenti rispondenti a logiche ben più elaborate del collegamento per parole-chiave degli odierni motori di ricerca, Google in testa. Anche per questo il Web appare oggi lo strumento preferenziale per articolare forse non un nuovo sapere collettivo fondato su valide basi teoriche e scientifiche, ma certo una diversa koiné: una lingua comune costituzionalmente ‘altra’ rispetto all’ordine simbolico e razionale del logos occidentale, a partire dall’unità aristotelica di tempo-luogo-azione, ora sostituita da una comunicazione diretta, rizomatica, indifferente alla distanza fisica e in tempo reale rispetto all’utente. Un utente capace ‘ oggi più di ieri ‘ di usare l’attenzione in modalità multitasking, ossia più canali sensoriali e più modalità motorie contemporaneamente. «Il mezzo è il messaggio» diceva McLuhan. Da qui l’interesse degli artisti a indagare questa misteriosa galassia in movimento, utilizzandola come mezzo di visibilità, di produzione e anche come tematica.
Alcuni ne decostruiscono criticamente tecnologie, linguaggio e protocolli; altri ne sperimentano le possibilità estetiche, a partire dai codici sorgente in testo ASCII; altri ancora affrontano i risvolti antropologici della rivoluzione digitale con operazioni di carattere performativo o politico. Ed è forse quest’ultima tendenza la più interessante e foriera di novità per il futuro, dal momento che l’evoluzione stessa di Internet muove verso un pubblico di non professionisti. Elemento, questo, che ha reso da un certo punto di vista superato il fenomeno net.art, sviluppatosi tra il 1994 e il 2004 a partire dalla ricerca di un gruppo di programmatori, che hanno fatto di Internet un mezzo di espressione e creatività: immateriale, processuale, dinamico e open source, perché fruibile e modificabile da chiunque (o quasi). In generale, la net art non è solo arte veicolata dalla Rete, ma arte di fare rete (M.Deseriis, G.Marano, Net.art. L’arte della connessione, Milano 2003), il che la ricondurrebbe non più al campo della rappresentazione e della contemplazione ma all’estetica della comunicazione, abitata non da opere bensì da operazioni, come avevano già esperito, con altri mezzi, i futuristi all’inizio del 900, i surrealisti nel gioco del cadavres exquis, la mail e fax art sviluppatesi rispettivamente negli anni 50 e 80. L’essenziale è non mancare il confronto con l’umano in favore di quello con la macchina. Eppure, senza confondere lo strumento con le idee, il Web sta di fatto reinventando le forme dell’attivismo sociale e politico e potrebbe far scoprire nuove modalità di resistenza e opposizione pacifica.
Quanto la net art si nutra e in qualche modo provenga dalla cultura hacker lo testimonia l’opera presentata nel 2001 alla 49a Biennale di Venezia, nel padiglione della Repubblica di Slovenia, dal gruppo EpidemiC insieme a Eva e Franco Mattes aka 0100101110101101.org, Biennale.py: un virus informatico che funziona in ambiente esecutivo Python, un linguaggio di programmazione scelto dagli artisti per la sua sintassi (riprodotta su un grande telone), che permette l’inserimento di elementi narrativi. Virus che gli artisti diffondono non solo attraverso i due computer infettati e i cd-rom del programma esposti in mostra, ma anche su magliette stampate con il codice sorgente. L’operazione è chiaramente una provocazione sull’ipocondria collettiva da virus e mette il dito lì dove la società presta maggiormente il fianco a paure e ricatti di chi vuole soggiogarla. La ribellione virtuale a principi di esclusività e originalità intesse la poetica di 0100101110101101.org, che rivendica il diritto di usare icone divenute patrimonio comune e simboli dell’immaginario collettivo, che si tratti di noti marchi commerciali o capolavori d’importanti musei.
In 11 anni di attività il duo ha firmato azioni di plagio, sabotaggi informatici, furti e remix di opere famose e siti protetti, la clonazione del portale ufficiale dello Stato Vaticano, surreali eventi mediatici di guerriglia-marketing, collezionando denunce come quella spiccata dalla Nike dopo la falsa campagna pubblicitaria di Nike Ground, che nel 2003 annunciava l’acquisto della storica Karlsplatz a Vienna da parte della multinazionale americana, con conseguente nuova intitolazione della piazza in Nike Platz e installazione di un logo monumentale. Tutto ciò attraverso un anfetaminico rapporto tra uomo e computer, nel quale i due artisti si definiscono semplici tecnici addetti alla manutenzione della sua intrinseca qualità estetica, fatta di configurazioni ottimali, essenzialità di processi, efficacia dei software, sicurezza di sistema, distribuzione dei dati.
Negli ultimi anni il cinema ha affrontato più volte la relazione uomo-macchina e, in particolare, la connessione tra virtuale e mentale, tra tecnologia digitale e processi cognitivi del pensiero senza coscienza, dalla trilogia Matrix dei fratelli Wachowsky (1999-2003) fino a Inception (2010) di Christopher Nolan. In campo artistico, il duo napoletano Bianco-Valente ha sviluppato dal 1997 una ricerca originale, intendendo il mezzo non solo come prolungamento dell’uomo, ma come strumento per generare nuovi scenari emotivi e dell’immaginazione (Deep in My Mind, 1997). Nascono da questo assunto paesaggi onirici e stranianti intessuti di tracce mnestiche e parvenze vaghe (Time-shaped Memories, 2009): labili orme di un vissuto che si muove silente tra sonno e veglia e del quale i due artisti procedono a ricercare l’Unità minima di senso (2002-03), tracciando con il mouse segni scarni e infantili nel tentativo di penetrare il mistero di quell’Entità risonante (2009) che è l’uomo, essere sociale e relazionale per antonomasia. Relational s’intitola infatti la rete di cavi elettroluminescenti con cui gli artisti hanno imbrigliato edifici e mura a Potenza, Napoli e Castelbasso. Una rete in cui trova nuova formulazione d’immagine la fitta trama di schizzi a grafite su muro e disegni digitali, che componeva nel 2008 l’installazione ambientale The Effort to Recompose my Complexity: una mappa interiore di ramificazioni neuronali e connessioni sinaptiche sottili come linee. L’intento di Bianco-Valente è arrivare con l’Arte là dove non è dato sapere: nella fisica quantica di un battito di ciglia (Rem, 2002, Stazione Metropolitana Rione Alto, Napoli), nella fantasia che origina dalla vitalità biologica (Self organizing structures, 2003), nell’alchimia di un invisibile affetto (Natural Warmness, 2004), nel pensiero nasosto in un brivido a fior di pelle (Sulla pelle, 2010).
Fonte: http://www.terranews.it/ di Francesca Franco