Lo spirito nel guscio 1.0
Il singolare episodio destò la curiosità di Sigmund Freud, che nel 1919 vi dedicò un saggio (“Il perturbante”). Nel XVI secolo, il filosofo e medico svizzero Paracelso ipotizzò la creazione di un “Homunculus” in alambicco, anticipando di qualche centinaio di anni l’idea dell’uomo in provetta, che vide la luce in Inghilterra nel 1978: fu dunque Louise Brown il primo essere umano concepito, anziché in utero, in un alambicco.
Per la realizzazione della “creatura”, Paracelso proponeva di lasciare a marcire del seme maschile in un ventre equino e quindi seguirne la maturazione con tutte le cure del caso. Fino a quando ‘ne nascerà un vero e vivo fanciullo umano provvisto di tutte le membra come un qualsiasi neonato generato da donna’.
L’Homunculus, conseguenza del dualismo cartesiano, riappare come l’idea che dentro di noi viva una persona che guarda attraverso i nostri occhi, che comunica attraverso la nostra bocca allo stesso modo in cui noi guardiamo da una finestra. Visione che il filosofo americano Daniel Dennett non esitò a definire “teatro cartesiano” ed il suo mentore Gilbert Ryle come “lo spirito nella macchina”.
Se nell’homunculus di Paracelso il principio vitale era il seme maschile, alienando ogni ruolo femminile, nel mito ebraico del Golem ritroviamo invece un superficiale riferimento alla donna attraverso l’elemento della terra. Il principio vitale questa volta è però il Logos divino che attraverso le combinazioni di lettere e numeri danno vita alla statua di fango del Golem.
L’alchimia della parola, che caratterizza il misticismo ebraico della cabbala, ha molte affinità con l’intelligenza artificiale se paragoniamo la statua di fango del Golem all’hardware di un computer ed il Logos divino al codice sorgente di un software. Metafora che non sfuggì al padre della cibernetica Norbert Weiner che scrisse: “Dio e Golem S.p.A. Cibernetica e religione”. La riproduzione della vita s’intreccia con quella meccanica del corpo come negli automi di Vaucanson, che impressionarono così tanto Cartesio da portarlo a paragonare il corpo e l’universo (res extensa) ad un orologio.
Non a caso Voltaire definì Vaucanson come il rivale di Prometeo. La riproduzione meccanica della coscienza e del corpo appare quindi come il tentativo definitivo di risolvere il nodo cosmico di Schopenhauer cioè l’intreccio tra il mondo degli oggetti materiali (res extensa), compreso il nostro corpo, e quella sostanza ineffabile ed apparentemente immateriale che oggi chiamiamo mente (res cogitans).
“Nelle ere della meccanica, avevamo operato un’estensione del nostro corpo in senso spaziale. Oggi, dopo oltre un secolo di impiego tecnologico dell’elettricità, abbiamo esteso il nostro stesso sistema nervoso centrale in un abbraccio globale che, almeno per quanto concerne il nostro pianeta, abolisce tanto il tempo quanto lo spazio” (Marshall McLuhan)
Re-engineering: ripensando l’uomo e il mondo
Futurologi, transumanisti e scrittori di fantascienza prefigurano un’epoca in cui l’attività del cervello si fonderà con quella dei computer. Abbiamo cominciato la ridefinizione dell’uomo servendoci di neuro-protesi per migliorare certe condizioni patologiche e alleviare alcune disabilità. Per esempio, esistono innesti cocleari per i non udenti, mani bioniche e dispositivi di stimolazione cerebrale a livello profondo (Deep Brain Stimulation, DBS) per i malati di Parkinson. Questi ultimi dispositivi, progettati nel 1987 dal neurochirurgo algerino Alim Benabid per la riduzione dei tremori e quelli di ultima generazione permettono anche di scaricare aggiornamenti di sistema tramite WiFi.
Al contrario delle neuro-protesi, che sostituiscono parti del corpo, le odierne interfacce cervello-macchina (BCI) si collegano “direttamente” al cervello, tramite elettrodi (invasivi e non) che usando le onde elettromagnetiche cerberali (in particolare la c.d. “P300”) per controllare con il pensiero dispositivi esterni come sedie a rotelle o robot.
Non sappiamo fino a che punto potranno progredire gli studi in questo campo e come i dati ricavati potranno servire nella realizzazione e nel perfezionamento delle simulazioni al computer dell’attività mentale. Per ora possiamo solo sognare di “caricare dati” nel cervello (mind uploading) o di scaricarne (mind downloading) per creare una copia di backup della nostra anima – mente, come accade nel film ‘Johnny Mnemonic’, ispirato al Neuromante del romanziere cyberpunk William Gibson, o come in ‘Matrix’ dei fratelli Wachowski, che s’ispira liberamente all’anime giapponese ‘Ghost in the Shell’ di Masamune Shirow.
Se il titolo vi suona familiare é perché riprende la critica fatta dal filosofo analitico Gylbert Ryle al cogito cartesiano come l’idea che dentro di noi vi sia un Homunculus o uno spirito nella macchina (‘Ghost in the machine’). L’informatica (internet, intelligenza artificiale, robotica, BCI) e le biotecnologie (ogm, clonazione, biochip) partecipano ogni giorno alla ridefinizione tecnologica dell’uomo e del mondo.
Riprendendo una metafora del sociologo canadese Mashall McLuhan possiamo affermare che ‘nelle ere della meccanica, avevamo operato un’estensione del nostro corpo in senso spaziale. Oggi, dopo oltre un secolo di impiego tecnologico dell’elettricità, abbiamo esteso il nostro stesso sistema nervoso centrale in un abbraccio globale che, almeno per quanto concerne il nostro pianeta, abolisce tanto il tempo quanto lo spazio’. Tanto che non é difficile scorgere analogie fra la complessità del cervello umano e il vasto network di nodi e connessioni che è oggi internet. Entrambi i sistemi sono in grado di mantenere, elaborare, richiamare e trasmettere informazioni.
Ma è possibile che un giorno la “rete” diventi anche cosciente’ Interrogativo che si pone Michael Brooks in un editoriale del New Scientist (New Sci, 30/04/2009; vedere in proposito articolo di BrainFactor del 04/05/2009 “Internet sta sviluppando una coscienza’”). E se un giorno i progressi delle interfacce uomo-macchina fossero tali da poter collegare anche le nostre menti ad Internet’ Il mondo, da villaggio, non diventerebbe forse una “coscienza globale”‘ Potremmo addirittura spingerci ancora più in là trovando nell’inconscio collettivo di Jung un corrispettivo di questa nuova coscienza’
Come la stampa a caratteri mobili aveva trasformato la cultura da orale in alfabetica incoraggiando un modo di pensare lineare, sequenziale e causale. Facendo derivare cioè ogni pensiero da quello precedente anziché, come nella cultura orale, dalla simultaneità e discontinuità dei pensieri. Così l’idea di ipertesto, alla base di internet, ha in qualche modo permesso di avere una riproduzione meccanica del flusso di coscienza, come auspicato da Vannevar Bush. Permettendoci di navigare di pagina in pagina allo stesso modo in cui la nostra coscienza fluttua di pensiero in pensiero.
L’ipertesto non può forse trovare in James Joyce il suo principale precursore’ E nell’Ulisse il tentativo di rappresentare in un foglio statico di carta ciò che oggi noi sperimentiamo in una pagina web multimediale (ipermedia)’
“Un giorno forse vedremo un uomo sparare a un androide appena uscito da una fabbrica di creature artificiali e l’ androide, con grande sorpresa dell’ uomo, prenderà a sanguinare. Il robot sparerà di rimando e, con sua grande sorpresa, vedrà una voluta di fumo levarsi dalla pompa elettrica che si trova al posto del cuore dell’ uomo. Sarà un grande momento di verità per entrambi.” (Philip K. Dick, L’androide e l’umano)
Memex, memory expansion
Nel 1945 Vannevar Bush, consigliere scientifico di Roosvelt, pubblicava sulla rivista Atlantic Monthly l’articolo “Come potremmo pensare”, che descriveva l’ipotetica realizzazione di Memex, un dispositivo nel quale un individuo registra i propri libri, il proprio archivio e le proprie comunicazioni personali, e che è meccanizzato in modo da poter essere consultato con eccezionale velocità e versatilità.
Allo stesso modo in cui noi, durante l’arco di un’intera giornata, saltiamo da un pensiero all’altro per associazione di idee, come Mr Bloom nell’Ulisse, il Memex doveva fornire la stessa velocità e versatilità. Bush suggeriva quindi di partire da un’ipotesi cognitiva, dal flusso di coscienza, per la realizzazione della sua macchina. Avendo afferrato un concetto, scriveva Bush riferendosi alla mente nel suo articolo, essa salta istantaneamente al prossimo che viene suggerito dall’associazione di idee, in accordo con qualche intricata ragnatela di percorsi tracciata dalle cellule del cervello.
Vannevar Bush era inoltre responsabile della gestione delle risorse umane del progetto Manhattan per la realizzazione della bomba atomica e molto probabilmente aveva concepito il Memex come una macchina in grado di archiviare i dati ricavati dal progetto, ma soprattutto di poterne accedere rapidamente.
Memex, come la macchina di Babbage, rimase purtroppo un dispositivo immaginario perché la tecnologia dell’epoca non ne permetteva una sua realizzazione… Le idee di Bush, però, influenzarono proprio Ted Nelson nella teorizzazione dell’ipertesto e Doug Engelbart nella realizzazione di un ipermedia, cioè di un sistema non composto solo da testi ma anche da file multimediali. Infine l’ingegnere Claude Shannon contribuì nella progettazione di dispositivi meccanici come quelli immaginati da Bush.
“In questo testo ideale le reti sono multiple e giocano tra loro senza che nessuna possa ricoprire le altre; questo testo è una galassia di significanti, non una struttura di significati; non ha inizio; è reversibile; vi si accede da più entrate di cui nessuna può essere decretata con certezza la principale.” (Roland Barthes, S/Z)
Ipertesto e ipermedia
Doug Engelbart mise a punto molte innovazioni, che fanno tuttora parte dei computer, tra cui le interfacce utente fatte di finestre (GUI graphic user interface), la teleconferenza, la posta elettronica, il word processor e il mouse. Inoltre sviluppò il sistema NLS (online system) capace di archiviare articoli, note, commenti, appunti all’interno di una sorta di bacheca collettiva modificabile e accessibile ad altri utenti tramite computer.
Mentre Engelbart lavora sull’NLS, Ted Nelson proponeva nel 1965 la prima riflessione organica sul concetto di ipertesto, introducendo i due termini di ipertesto e ipermedia. Il 9 dicembre 1968 il prolifico inventore, allo Stanford Research Institute, presentava in videoconferenza il risultato delle sue ricerche ad una platea di ingegneri sbigottiti dal mouse come sistema di puntamento in grado di gestire la GUI del sistema NLS e di come si potevano condividere e modificare i suoi elementi dai computer collegati in rete. Il mouse venne però sfruttato solo nel 1984 da Steve Jobs, fondatore della Apple insieme a Steve Wozniack, nel computer Lisa.
Le ricerche di Engelbart, sovvenzionate dal dipartimento della Difesa statunitense ARPA, confluirono nella rete ARPAnet, madre della rete delle reti che sarebbe diventata un giorno Internet. Ted Nelson, nella sua opera Literary Machines (1981), considerava l’ipertesto come una forma di scrittura non sequenziale in cui ogni documento (nodo) conteneva collegamenti incrociati (link) che permettevano al lettore / utente di muoversi da un documento all’altro. Nell’insieme gli ipertesti avrebbero dovuto raccogliere l’intera conoscenza umana in un universo di documenti (“docuverso”, nella definizione data da Nelson), composti non solo di testo ma anche di immagini, video e suoni (ipermedia).
Se il libro possedeva un inizio ed una fine, un docuverso aveva solo un punto di partenza da cui il lettore / utente poteva iniziare a navigare. Il libro stampato risultava quindi un prodotto finito e statico, adatto all’idea di possesso individuale, al contrario dell’ipertesto che era un processo a cui chiunque poteva partecipare. L’ipertesto condurrà inevitabilmente a quello che il teorico del linguaggio Roland Barthes chiamerà la “morte dell’autore” e all’odierna crisi della proprietà intellettuale e a forme di scrittura collettiva come il defunto Luther Blissett Project e l’attuale Wu Ming Foundation.
A quel tempo Internet era ancora lontana, ma l’idea di navigazione per collegamenti ipertestuali e di pagine multimediali stava prendendo forma. Ted Nelson, memore più dell’utopia mongola di un luogo in cui la conoscenza umana potesse venire tramandata in eterno che della poesia di Samuel Taylor Coleridge, battezzò Xanadu il software, mai realizzato, di indicizzazione dei documenti.
Nel suo articolo del 1945 Bush illustrò esattamente il modello che oggi noi conosciamo come ipertesto composto da pagine (nodi) che l’utente può navigare spostandosi seguendo collegamenti ipertestuali (link) che associano le diverse pagine. Modello realizzato solo nel 1991 dal fisico Tim Berners-Lee, che in un memorandum del 1989 proponeva un modello di interconnessione delle informazioni in una struttura a ragnatela (world wide web), che permettesse di navigare in modo non lineare tramite link e ipertesti utilizzando un browser. Inoltre creò la sigla Http, cioè il protocollo di trasmissione degli ipertesti sul web e Html, oggi giunto alla sua quinta versione, come il linguaggio per la loro realizzazione.
Nel febbraio 1993 apparve Mosaic, il browser che avrebbe rivoluzionato per sempre il web. Perché supportava video e immagini ed era liberamente scaricabile da internet. Oltre ad essere molto facile da installare, Mosaic era disponibile per le principali piattaforme del momento: Unix, Windows e Macintosh, e pertanto fu il primo ad essere multipiattaforma. Da lì a poco sarebbero nati altri browser che avrebbero segnato la storia del web: nel 1994 Netscape che poi confluì nella realizzazione di Firefox ed Internet Explorer che veniva venduto in bundle con Windows 95.
Reverse engineering
Come un’azienda che osservando il prodotto di un’azienda rivale tenta di riprodurlo allo stesso modo oggi si studia il cervello. I tentativi di simulare l’attività mentale del cervello hanno quindi come punto di partenza l’ingegneria inversa (reverse engineering), approccio attualmente utilizzato ad esempio dai neuroscienziati del progetto Blue Brain.
Il progetto é nato nel 2005 con lo scopo di comprendere la struttura e simulando le connessioni neuronali del cervello in modo da fornire uno strumento a neuroscienziati e ricercatori medici che li possa aiutare a comprendere meglio le malattie del cervello, senza dover fare ricorso ad animali.
Fra dieci anni il cervello artificiale del progetto Blue Brain, presentato al grande pubblico nell’Università di Oxford durante il TED Global 2009 dal neuroscienziato Henry Markram, potrebbe essere realtà. ‘La prima fase del progetto – afferma Markram – è completata: siamo finalmente riusciti a modellare la colonna neocorticale, una unità del cervello dei mammiferi responsabile delle funzioni cognitive più elevate e del pensiero.’ Per ricostruire questa porzione di cervello, intanto, si è dovuto far ricorso a uno dei più potenti computer al mondo, il Blue Gene dell’Ibm, un supercomputer capace di 22,8 migliaia di miliardi di operazioni al secondo.
Il neuroscienziato, direttore del Centro di Neuroscienze e del Politecnico di Losanna (EPFL), pensa che con i contributi di scienziati di diverse discipline si possano assemblare le singole scoperte e capire finalmente come funziona il cervello, creandone un modello che ne possa replicare le funzioni.
BCI: Brain Computer Interface
Ma torniamo un attimo al 1924, perché è proprio in quell’anno che il medico Hans Berger scopre l’esistenza delle onde cerebrali, ovvero onde elettromagnetiche che si formano nel nostro cervello quando i neuroni comunicano tra di loro. Queste onde sono vengono rilevate con la tecnica della elettroencefalografia (EEG), fra i principali strumenti per la diagnosi dell’epilessia e di altre forme di malattie neurologiche.
Nel 1975 si fece il primo tentativo pionieristico, da parte del neurofisiologo e ingegnere Lawrence Pinneo, di utilizzare queste onde cerebrali non solo a scopo diagnostico, ma anche per consentire a una persona di comunicare “mentalmente” con un computer. I primi tentativi furono un fallimento, tanto che la ricerca continuò in modo sporadico fino a quando, nel 1990, si raggiunse il primo successo da parte di Jonathan Wolpaw, che insieme alla sua equipe riuscì ad utilizzare le onde cerebrali per muovere il cursore del computer in “su”, in “giù”, a “destra”, a “sinistra”.
La Brain Computer Interface studia appunto le interfacce uomo-macchina che, registrando l’attività elettrica del cervello (EEG), tramite elettrodi non invasivi (la classica cuffia) o invasivi (mediante una operazione chirurgica), permettono di agire sul mondo circostante con la sola “forza del pensiero”. In questo modo, dopo un training preparatorio, il cervello può ottenere il movimento di un cursore come negli studi iniziali di Wolpaw o di una sedia a rotelle, come hanno dimostrato nel 2009 i ricercatori del Politecnico di Milano, fra gli altri.
In Inghilterra, nel Centro interdisciplinare per la ricerca della Computer Music dell’Università di Plymouth, il professor Eduardo Miranda sta invece lavorando allo sviluppo di progetti legati alla
Bcmi (Brain Computer Music Interface, termine da lui coniato), ovvero una sezione della BCI applicata alla musica. Quello che permette il movimento degli oggetti non è una lettura del pensiero, ma una correlazione di azione-reazione dei pattern elettrici legati a un determinato pensiero.
Quando pensiamo, per esempio, di afferrare un oggetto o di stringerlo, il cervello emette sempre lo stesso tipo di onde (P300). Catalogando la forma di queste ed inserendole in un computer, ogni volta che si presenterà lo stesso input, il computer, e quindi il dispositivo esterno, risponderà con lo stesso output. Ma, attenzione: in realtà non c’è alcun nesso fra il pensiero in sé e l’azione; quando leggiamo sui giornali titoli come ‘Leggere il pensiero con scanner cerebrali’ non lasciamoci ingannare, perché sono solo forzature giornalistiche per catturare l’attenzione dei lettori meno accorti…
Fonte: http://brainfactor.it/ di Andres Reyes